martedì 19 aprile 2016

REFERENDUM: HA PERSO LA DEMOCRAZIA


L'articolo a firma di S.E. il Prof. Salvatore Sfrecola a margine della recente tornata elettorale, non ha bisogno di introduzione: tanto è di per sé ricco di sostanzialità, di spunti interessanti, di riflessioni e - per molti versi - di elementi ovvii. Palesi agli occhi di tutti, salvo di chi si ostini a non voler vedere...
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Referendum, hanno vinto tutti, ha perso la democrazia

Com’è consuetudine all’indomani di una consultazione elettorale tutti si proclamano vincitori o, comunque, “non perdenti” assumendo che, in vario modo, l’esito abbia dato ragione alla indicazione fornita al corpo elettorale. C’è, però un sicuro perdente, la democrazia, sempre quando il risultato del voto è determinato dall’astensione degli elettori. E perde la politica se quell’astensione è stata effetto della insufficiente o distorta informazione intorno al quesito e alle conseguenze che la sua approvazione o meno avrebbe determinato.

Non entro, dunque, nel merito del controverso quesito referendario, sul quale, peraltro, si sono sentite non solamente tesi diverse, com’è normale che sia, ma autentiche bugie, evidenti anche alle orecchie del più modesto degli osservatori, purché desideroso di apprendere, ciò che dimostra come la democrazia in questo nostro Paese sia ancora incompiuta. Come attesta la polemica sull’astensione, certamente consentita sulla base della norma costituzionale la quale (art. 75, comma 4) prevede che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”. Escluse, dunque, le schede bianche o nulle. Questo limite fu oggetto di accesa discussione in Assemblea Costituente. Fu proposto (Paolo Rossi) di elevare il quorum ai due quinti. Poi passò la formula dell’on. Perassi. E fu la maggioranza degli aventi diritto. La preoccupazione era quella di evitare che una legge, magari approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento, potesse essere abrogata anche solamente dal quindici per cento degli elettori.

La preoccupazione si comprende ma non convince. Il referendum è istituto cosiddetto di democrazia diretta, attraverso il quale si intende verificare la rispondenza della volontà degli eletti ai sentimenti degli elettori. È espressione autentica di democrazia per cui il limite imposto dal quorum a mio avviso non ha senso, in quanto, in vista del quesito, le associazioni ed i comitati schierati sul si o sul no, i parlamentari ed i partiti sarebbero costretti ad un impegno importante per sollecitare l’elettorato a votare in favore delle rispettive posizioni. Fidare sull’assenteismo, indotto da disinteresse per la partecipazione alle scelte della comunità o, peggio, da insufficiente o distorta informazione non è degno di una democrazia matura come noi crediamo sia quella italiana. O forse come vorremmo che fosse.

Sulla base di questo mio modo di intendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni dissento dalla tesi di Alessandro Campi, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Perugia, esposta oggi su Il Messaggero, secondo la quale “in democrazia non votare è comunque un modo per esprimere la propria opinione”. Ed aggiunge: “l’idea che solo recarsi alla urne rappresenti una prova di maturità civile o un esercizio virtuoso di cittadinanza nasconde un’idea pedagogica della politica e una visione della democrazia che sacrifica la mobilitazione di massa alla libertà individuale”. Dissento perché è difficile immaginare nella diserzione delle urne una scelta politica rispetto ad una decisione legislativa, come in questo caso, od all’indirizzo politico presentato dai partiti in una competizione elettorale. E, poi, da quale partito, considerata la varietà delle proposte in campo sulle politiche pubbliche, dovrebbe intendersi realizzato il dissenso del non voto?

Neppure l’ipotesi che il cittadino non vada a votare perché disgustato, come taluno afferma non senza qualche fondatezza, dalla politica e dagli scandali che da anni la caratterizzano, può identificare una “scelta” politica, sia pure implicita in una “non scelta”.

Diamo alle cose l’interpretazione più corretta o solamente più verosimile. Il popolo italiano non è stato educato alla partecipazione elettorale. Non lo è stato nei primi anni del Regno, quando votavano solamente i possidenti e coloro che sapevano leggere e scrivere, non lo è stato ai tempi del Fascismo, quando la “religione della libertà”, per dirla con Benedetto Croce, è stata sistematicamente compressa. Non lo è stato neppure nei primi anni della Repubblica nata sotto la minaccia del “caos” se non avesse prevalso sulla Monarchia. Ha avuto una parvenza di dignità essenzialmente negli anni della contrapposizione Democrazia Cristiana-Partito Comunista quando, come nel 1948, fu netta la contrapposizione nelle piazze d’Italia tra libertà e comunismo filosovietico, negatore dei diritti civili. Presto il compromesso storico e la esaltazione della fine delle ideologie, hanno decretato, in realtà, la fine delle idee che distinguevano destra e sinistra. Sicché, come ha scritto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di domenica 17, si è realizzata quella “erosione di identità che omologa la politica” ed attua, attraverso la fine dei partiti storici, il superamento del confronto, per cui il cittadino non è stimolato a riflettere, anche nel modo più semplice o semplicistico, per identificare il partito o l’uomo politico del quale condividere e sostenere i programmi. In tutto questo non ha aiutato una legge elettorale che fa del Parlamento un’assemblea di nominati dai partiti e non di soggetti eletti dai cittadini perché radicati sul territorio. Anzi, si è fatto di tutto per allontanare gli eletti dagli elettori trasferendo i candidati da una regione all’altra, spesso a distanza di molte centinaia di chilometri. In queste condizioni appare estremamente arduo considerare il non voto una scelta “politica”.

18 aprile 2016                                           Salvatore Sfrecola
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